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La comunicazione si misura all’arrivo

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È vero, lo sanno tutti, ma molto spesso la gente se lo dimentica: l’efficacia della comunicazione si misura sul risultato, perché non contano le intenzioni che si vogliono comunicare, ma solo quello che l’interlocutore riceve. E Gilbert Arlan1, al riguardo, a suo tempo aggiunse una chiosa preziosa: “Se non colpisci il bersaglio, la colpa non è mai del bersaglio.”
È infatti molto comune il vizio di pensare che “si, tocca a me mettercela tutta, ma tocca anche agli altri sforzarsi di capire”.
È un pensiero, comprensibile, ma che svela una mentalità molto infantile.

Thomas Gordonarticolava in cinque punti la comunicazione efficace:

  1. Chiarezza: il messaggio deve essere espresso in maniera semplice, precisa e comprensibile, evitando ambiguità, fraintendimenti e incoerenze.
    In tal senso è opportuno evitare le presupposizioni, ovvero ciò che viene dato per scontato e che non viene pertanto esplicitato. Questo concetto è oggi definito da Steven Pinkerla maledizione della conoscenza”.
    È un bias cognitivo che si verifica quando un individuo, che sta comunicando con altre persone, dà per scontato che gli altri abbiano le sue stesse conoscenze sull’argomento e di conseguenza dà per sottinteso una gran parte dei temi che invece richiederebbero un approfondimento. Nelle riunioni tecniche questa è una errata prassi largamente ricorrente, soprattutto nei più giovani.
  2. Empatia: è la capacità di mettersi nei panni dell’altro, cercando di capire il suo punto di vista, le sue emozioni e le sue esigenze. L’ascolto empatico favorisce la comprensione reciproca, il rispetto e la fiducia. Nei dialoghi con i clienti questo è un punto essenziale: se uno pensa e parla solo dal “suo punto di vista” non capirà mai il punto di vista dell’ospite. E questo ha un’arma fondamentale in mano: non tornerà mai più dove non si è sentito capito e rispettato.
  3. Assertività: è la capacità di esprimere le proprie opinioni senza aggredire o sottomettersi all’altro. L’assertività implica saper dire di no quando necessario, saper chiedere e offrire aiuto, saper accettare e dare feedback, saper negoziare e trovare soluzioni condivise. L’assertività si basa sull’autostima e sul rispetto di sé e degli altri.
  4. Feedback: è la risposta che si riceve o si dà al messaggio dell’altro. L’analisi della retro-azione è fondamentale per verificare la corretta comprensione del messaggio, per chiarire eventuali dubbi o domande, per valutare l’efficacia della comunicazione, per rafforzare o modificare il comportamento. Il feedback deve essere tempestivo, specifico, costruttivo e sincero, senza essere offensivo o manipolativo.
  5. Ascolto attivo: è la capacità di ascoltare in maniera attenta, aperta e partecipe, cercando di cogliere il significato profondo del messaggio dell’interlocutore. L’ascolto attivo richiede di concentrarsi sull’altro, di eliminare le distrazioni e le interferenze, di usare il linguaggio del corpo e le parole per dimostrare interesse e attenzione, di fare domande aperte e pertinenti per approfondire e stimolare il dialogo.
    Sul fatto che chi comunica è colui che “scocca la freccia”, e quindi secondo Gilbert Arlan, è il responsabile dell’andata a buon fine della comunicazione, va precisato che per ottenere un dialogo anche la parte ricevente deve fare la sua: se non c’è dialogo è perché manca l’impegno a comprendere quanto l’altro ci vuole comunicare. Ma tocca comunque “all’arciere” farsi carico di ciò e stimolare l’ascolto.

Da dove parte il problema

Purtroppo, in Italia, i modelli di comunicazione che la scuola e l’università ci continuano ad offrire sono, al riguardo, desolanti: mentre si salvano, il più delle volte, sul piano dei contenuti, sono terribili sul piano della relazione. Uno studente, nel corso di circa 18/20 anni di formazione (ma spesso anche 23/25 anni) vede il più delle volte solo la schiena dei suoi insegnanti, impegnati a vergare sulle lavagne (anche oggi spesso con gli storici gessetti) norme, regole, definizioni, ecc.
Quasi mai la base degli insegnamenti è il dialogo, tranne casi, esistenti, encomiabili, ma molto rari. Vi è un largo uso della parola, ma solo dalla parte di chi insegna, di solito schermato da una cattedra: nessuno riflette sul fatto che ogni tavolo e ogni cattedra sono, inconsapevolmente, delle barricate che separano “chi sa” da “chi non sa” e che quindi sono una trincea eretta per proteggere chi “detiene la conoscenza”, in un contesto nel quale si dovrebbe condividere la cultura, non schermarla con delle barriere.
Infatti queste “barricate” sono, paradossalmente, anche il fulcro degli eventi definiti “tavole rotonde” (ispirate alla genialità di un leader come Re Artù) ma mai si è vista una tavola rotonda che si svolgesse attorno a un tavolo che non fosse vistosamente rettangolare: un grande indice di incoerenza. Chi ospita degli eventi spesso ne è, inconsapevolmente, complice.

Chi insegna parla molto, ma quanto parlano gli studenti? Parlano solo quando timidamente alzano la mano, chiedendo il permesso per poter avanzare una domanda: ricorda i sergenti dalla voce tonante che urlano “Parla sono quando sei autorizzato”. Oppure parlano quando sono sotto il torchio di una interrogazione, che terminerà con un voto che segnerà la loro carriera didattica, svolta sotto al segno del subire, che non aiuta a co-gestire, ma ad essere gestiti. Poi ci lamentiamo che i giovani non siano sciolti nel parlare o nello scrivere…
Quante pagine hanno scritto in anni di università? Non le pagine usate per prendere appunti, ma fogli di espressioni personali, di idee, di spunti progettuali, di sintesi e di valutazioni su quanto appreso, fatte avere ai docenti e con loro discusse. Probabilmente nessuna.
Sono però di moda le “pagelline” che vengono chieste agli studenti al termine di un corso sulla bontà degli insegnamenti ricevuti, per rispettare delle norme ufficiali che regolano la didattica, pagelle simili a quelle che i giornalisti sportivi assegnano agli atleti in televisione: dovrebbero essere espresse con un sistema decimale, da 1 a 10, ma di solito riportano solo un 8 come valore massimo (rarissimo), normalmente dei 7, sono zeppe di 6 e di qualche 5. Quindi il sistema decimale si riduce a 4 voti.
Solo in qualche raro caso (praticamente mai) nelle “pagelline” viene indicato il perché del voto, lasciandole così prive dei suggerimenti utili a porre rimedio nel caso di voti molto bassi o addirittura insufficienti.

Il primo documento che gli studenti universitari sono chiamati a scrivere è la tesi finale, che prevede l’impiego minimo di 130.000 battute, sino a 260.000 caratteri, spazi inclusi. È una bella sfida per chi non ha mai scritto nulla. Sembrano le regole di un gioco perverso ma è la realtà nella quale si formano i giovani che dovranno guidare il nostro futuro.

Poi, come se non bastasse, chi già opera da anni nel mondo del lavoro, dimentico di queste torture o forse inconsapevolmente desideroso di una rivincita, pare sorpreso di quanto appaiono “poco aperti al dialogo” i neolaureati, che spesso, così spaesati, non sanno scrivere con rapida scioltezza e parlano ad occhi bassi, cercando le parole, pronti ad essere terrorizzati dall’urlo del sergente di turno. Piero Angela, prima di ricevere 12 lauree honoris causa, ha abbandonato l’università italiana che stava frequentando (“Perdevo solo tempo”, disse poi) ed ha fatto un concorso alla RAI, che ovviamente superò brillantemente, diventando un ammirato divulgatore scientifico noto nel mondo. La stessa cosa è accaduta a Steve Jobs: stanco di veder buttati i soldi che sua madre guadagnava lavando le scale del vicinato, prima di ritirarsi dall’università, per sfruttare utilmente almeno un semestre già pagato, utilizzò l’unica cosa pratica che lì veniva impartita, il seminario di un monaco buddista che insegnava calligrafia.
Fu grazie a questo che oggi tutti noi possiamo contare sulla grafica in uso del mondo informatico, creata da Jobs, che consente delle splendide curve tonde al posto di quelle, esteticamente orribili, composte da tanti pixel quadrati.
Qualcuno si chiederà: “Ma allora dobbiamo dire ai giovani di abbandonare gli studi e cercare monaci che insegnano calligrafia?
No, dobbiamo smettere di intendere la didattica come l’insegnamento di un sergente istruttore in un reggimento di guastatori. Basterebbe fare come in Svizzera, dove l’autorizzazione a svolgere il ruolo di docente universitario prevede, oltre la verifica della competenza nella disciplina nella quale il candidato dovrà operare, anche, obbligatoriamente, la conoscenza della prossemica, della comunicazione non verbale e il superamento di corsi di retorica e di arte drammatica.

Per venire al settore, oggi in grande sviluppo, dell’hôtellerie, si potrebbe parafrasare Giampaolo Fabris che affermava, riferendosi al mercato del consumo nel suo insieme, che “si vendono prodotti, ma i consumatori acquistano brand. I brand sono il risultato e la stratificazione di significati, valori intangibili, storia, cultura, ma soprattutto relazioni”.

Oggi le relazioni, per una comunicazione efficace, devono tenere anche in gran conto il concetto di inclusività, che, oltre ad essere una tendenza, risponde a una domanda etica e morale sempre più pressante, incarnando i valori di una società che si fa progressivamente più consapevole delle proprie differenze. L’inclusività significa garantire che ogni individuo, a prescindere dalla sua etnia, dal genere, dalla sua età, dalla sua provenienza, dalla sua religione, dalle sue convinzioni politiche, dal suo fisico, dal suo stato di salute e quant’altro, possa partecipare pienamente alla vita sociale, prevalentemente negli ambienti di lavoro, senza subire discriminazioni, ricevendo e dando rispetto e valorizzando le differenze personali. I brand che abbracciano l’inclusività non solo dimostrano un impegno verso la responsabilità sociale, ma riescono anche a raggiungere un pubblico più ampio e diversificato. In un contesto in cui i consumatori sono sempre più attenti ai valori dei brand e alla coerenza tra questi valori e le loro pratiche, l’inclusività rappresenta un fattore chiave per costruire relazioni di fiducia e lealtà.
La relazione e la comunicazione efficace sono gli strumenti che, primi tra tutti, nel rispetto dell’inclusività, consentono il consolidamento del successo di un brand.
Buona vita a tutti.

1 Gilbert Arlan è stato presidente del dipartimento Dipartimento di Storia dell’Hillsdale College. Nel corso del centocinquantesimo anniversario del Collegio gli fu conferita la laurea honoris causa in filosofia.

2 Thomas Gordon, psicologo e pedagogista statunitense, ha elaborato i principi della comunicazione efficace applicati all’educazione, alla famiglia e al lavoro.

3 Steve Pinker, professore di psicologia all’Università di Harvard e autore del testo “Come funziona la mente”.

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